ARZIGNANO (Vicenza) - La
programmazione di Atipografia, all’insegna del “non visibile”,
prosegue da sabato 21 marzo con l’inaugurazione della mostra “Fiori
violenti: fototropismo verso la forma” di Mattia Bosco. Dopo Tunnel City, di
Andrea Bianconi, e le Coordinate Invisibili, tracciate da Carlo
Bernardini negli spazi del nuovo centro per l’arte contemporanea, ricavato
da un’antica e affascinante tipografia di fine Ottocento, nel centro di
Arzignano, Mattia
Bosco
sonderà, con la propria esperienza e sensibilità, il tema scelto dai due
fondatori Elena Dal Molin e Andrea Bianconi, come linea guida di
questa prima stagione.
La mostra scultorea, a cura di
Elena Dal Molin, nasce da un’operazione di recupero di alberi
abbattuti all’interno del territorio del
Comune di Arzignano, già sostenitore di Atipografia. Un progetto espositivo che
si inserisce perfettamente nel solco tracciato dalle mostre che lo hanno
preceduto e che si sono sempre distinte per il loro carattere site
specific. Atipografia, infatti, è un vero e proprio laboratorio, che si
pone come stimolo e sfida per l’artista.
Mattia Bosco si
cimenterà con i grandi temi della forma e della materia, assoluti protagonisti di
questa mostra,
nel tentativo di riscontrare una continuità o un contrasto tra la tangibilità
delle cose e la nostra stessa corporeità. Il materiale principe
di questa
avvolgente installazione site specific, sarà il
legno. Una
foresta di tronchi e fusti, che paiono quasi resti di un colonnato greco,
come evocato da Disordine corinzio, una
delle opere del percorso, andrà a ricreare all’interno delle antiche sale della
tipografia una cattedrale di ossa vegetali, così come le intende
Mattia Bosco, “ultimi fiori” che si dischiudono con un gesto
violento, quello dello spezzare, mostrando tutto il proprio intimo mistero fatto
di luce accumulata da queste travi nel corso degli anni. Le linee
spezzate e chiuse
formano dei triangoli, un simbolo sacro nato da un atto di forza
compiuto dall’artista sul legno stesso, liberando la luminosità in esso
contenuta e svelando così il “non visibile”, la vita che si cela all’interno
degli alberi.
Come ben ci
ricorda Mattia Bosco "Gli alberi seguono una legge
precisa secondo la quale si sviluppano in infiniti modi, ma tutti sono ancorati
al suolo, non si può dare un albero senza radici, l'albero è sviluppo
verticale a partire da un punto, non può muoversi da lì se non
ramificandosi, bilanciando i rami che cercano la luce con quelli che sono nel
buio della terra".
Questo fenomeno è descritto dalla
scienza proprio come “Fototropismo” che, prendendo in prestito le parole
del grande matematico, filosofo e scienziato
Charles Sanders Peirce, si può poeticamente riassumere come <slancio cui corrisponde l’uomo con il suo
fototropismo verso la verità
>>, un istinto innato dunque, che
coinvolge anche la natura umana.
Quattro sono le giovani voci di
spicco del panorama letterario che sono state invitate dalla curatrice Elena
Dal Molin a raccontare le opere di Mattia Bosco: Benedetta Tobagi,
giornalista, scrittrice e membro del CdA Rai, Orazio Labbate, autore di
Lo Scuru, candidato al Premio Campiello 2015, Maurizio Torchio,
autore del romanzo Cattivi, e Alcide Pierantozzi, già
autore di Uno in diviso, L’uomo e il suo amore e, prossimamente,
in uscita con Tutte le strade portano a noi. Insieme a loro, l’ormai preziosa e
amichevole presenza del critico Luigi Meneghelli che, anche in quest’occasione,
porterà un proprio contributo alla lettura delle opere di Bosco.
L’evento
espositivo sarà inoltre occasione per presentare un progetto di intervento
permanente, pensato ad hoc per la struttura della sede di Atipografia, per cui l’artista ha
scelto di utilizzare un altro pregiatissimo elemento naturale: il marmo.
Questa pietra andrà, infatti, a modificare l’ampia terrazza della sede di
Atipografia attraverso un lavoro di work in progress che si svilupperà durante
tutto il periodo della mostra e oltre, per il quale l’Associazione sta
attualmente raccogliendo fondi. Se per Brancusi “la
scultura è acqua”, per Mattia Bosco il gesto compiuto dall’artista che lavora la
materia assume anche una fondamentale e imprescindibile
componente temporale.
La pietra, che conserva su di sé
il passaggio di ogni singolo istante, si rivela agli occhi dell’artista come
“tempo allo stato solido”, un libro dalle pagine
sedimentate. Secondo l’artista la scultura
diventa
dunque "un modo di affrontare questa chiusura, di dissigillare il mondo, di
scalfire la sua carne, di tentare una riscrittura là dove non possiamo leggere.
Si scrive per cercare di leggere, di decifrare". Ed ecco che il tempo dell’uomo
scultore si sovrascrive a quello della pietra, che lo accoglie, conservando però
intatta dentro di sé la memoria storica del mondo: "Il tempo
passato, il tempo presente, il tempo futuro: la pietra, l'uomo, il robot. Questi
sono gli scalpelli che uso".
L’opera proposta da Bosco, dunque,
vuole proprio insistere su questo paragone tra gesto dello scultore e
movimento dell’acqua che lambisce la pietra: come quest’ultima imprime ad
essa la sua forma eterna, mantenendo così la propria presenza anche quando sarà
completamente evaporata, così il segno di ciò che ha lavorato, come l’acqua,
sarà sempre visibile, anche in assenza di chi l’ha compiuto. L’artista
milanese, inoltre, sarà prossimamente protagonista di un grande appuntamento di
rilievo che lo vedrà impegnato a
Basilea, al
Museo
Tinguely, in
occasione di Art Basel, per un progetto a quattro mani con Aaron
Mirza, vincitore
del Leone d’Argento alla 54^ Biennale di Venezia.
Commenti