Dino De Laurentiis Il napoletano di Hollywood che ammansì King Kong

di Lino Manocchia
Agostino De Laurentiis, che gli amici di Torre Annunziata (Napoli) chiamavano “Dino”, era nato l’8 agosto 1919, sotto il segno dei leone.


Sino ai 17 anni, Dino De Laurentiis (nella foto con Lino), vendeva gli spaghetti di papà pastaio, ma raggiunti i 20 anni fece scattare la scintilla del mondo della celluloide.
«Spesso guardavo lo specchio, però pensavo: ”No, la mia ambizione non è quella di fare l’attore”, sognando, forse, che il destino gli avrebbe aperto la porta delle star, dei ceroni e dei riflettori di quel magico mondo che un giorno avrebbe dominato. Dino aveva il gusto dell’avventura. «E’ un Concord, non può aveva pace,» dicevano gli amici, «che regolarmente seduceva con spaghetti e caffé espresso.»
«Guai se mi fermo,» disse una volta, «la mia filosofia di sentirsi giovane è quella di lavorare sino a quando puoi.»
Ed un bel giorno, senza troppi rimpianti, il ragazzo di Torre Annunziata disse addio all’Italia vestendosi da novello Colombo in America. Fu un passaggio brusco, imprevisto sostenuto dall’allergia della lingua inglese. Correva l’anno 1976, Hollywood si dibatteva per creare un film avente per primo attore il gigantesco gorilla “King Kong”, che rapiva una magnifica esploratrice, e Dino De Laurentiis, che come produttore non ha mai accettato il “No”, brandì lo scudiscio ed ammansì King Kong.
(Nelle foto: De Laurentiis con Pisolini e Silvana Mangano. A destra: con Jerry Louis e Fellini)
Il cronista ebbe modo di incontrarlo la prima volta in occasione del “ciak” di “King Kong a New York” e, un’altra volta, nel suo trono-quartier generale nel magnifico grattacielo Western Golf in Columbus Circle, impegnato da una coppia di telefoni, contratti, ordini 
Per l’insofferenza verso i politici, verso i sindacati, e, sopratutto per la impossibilità di trasformare leggi sbagliate a imprenditori miopi, e di trasformare un cinema artigianale come quello italiano, in un cinema industriale e internazionale.»
E perché proprio negli Stati Uniti?
«Perché sono l’unico Paese al mondo in cui non bisogna ”compiacere” la sinistra per esser intelligenti,» spiegò.
Ma come mai, i nostri attori sono poco “esportabili”.
«Non sono gli attori che esportano i film, ma i film che esportano gli attori,» sentenziò Dino. La conversazione cadde sul doppiaggio dei film italiani ed il perché il film italiano non attacca qui in America. «Il doppiaggio,» Dino spiegò, con la sua voce profonda che incuteva timore, «comporta una spesa enorme per la traduzione, con parole spesso intraducibili. E’ un travestimento della realtà, come, appunto, la pellicola ”La Bibbia” (che De Laurentiis aveva fatto girare a John Huston). Il doppiaggio,» spiegava lo zar di Hollywood (come lo chiamavano nella capitale della celluloide) il più delle volte rovina il contenuto, ma la bellezza della lingua non potrà mai essere tradotta in lingue che non accettano o non ne capiscono il significato.»
Dino riconosceva che l’Italia aveva una buona quota di voci – molte della Rai – «ma purtroppo, troppo eguali. Il doppiaggio è senza dubbio uno dei tanti elementi che contribuiscono a far perdere piede ai nostri film in America.»
Il “Grande campano” respingeva, sorridendo e toccandosi le estremità degli occhiali, “l’accusa” di caparbietà, spiegando che «quando un uomo ha successo, viene subito accusato di qualcosa. Ma senza ambizione e tenacia non c’è successo.»
Dino voleva sapere spesso, del lavoro dello scrivente e per lui, fu un magnifico “maestro” di vita spiegando con una semplicità conturbante come ottenere il successo, e concludeva: «Devi avere intuizione e la capacità di lavoro, dalla mattina alla sera alle undici.»
Dino idolatrava la famiglia, ed affermava di possedere il «puro pensiero napoletano, l’amore per I figli, l’amore per la vita, la buona cucina, il sole ed il mare.»
Quando gli chiedevo se egli doveva tutto al suo carattere, rispondeva con una sarcastica risatina: «Si, far ciò che mi piace.»
Superstizioso, aveva un corno di corallo sulla scrivania, e quando domandai il perché aveva fatto venire apposta il barbiere da Napoli, precisò: «Vincenzo non è solo il mio barbiere, è anche un uomo di fiducia, con me da trent’anni, sua moglie Concetta poi è una cuoca straordinaria.»
Il curriculum dell’ “emigrato napoletano” contiene una invidiabile cornucopia di lavori, successi e qualche contrattempo che, con il suo savoir fare, ha controbattuto a fronte alta. Padre e marito desiderato da splendide signore, che Dino accantonò per Silvana Mangano – l’eroina del film “Riso Amaro” – la quale gli regalò quattro figli, e morì nel 1989. Qualche anno fa sposò la Movie Producer Martha Schumaker che l’ha baciato, l’ultima volta, insieme alle due sue figlie, il 10 novembre 2010, lasciandoci un retaggio di opere (e due meritati Oscar) per chi ama fare della vita uno strumento costruttivo, di marca Delaurentisiana.
L.M.

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