Dipinti e incisioni sala “Roberto Iras Baldessarri” via dei Portici, 25 ROVERETO dal 3 al 10 settembre 2011 orario: 18,00 / 22,00 sabato e domenica: 10,00 / 12,00 - 18,00 - 22,00 - chiuso il lunedì
Ingresso libero – Catalogo in galleria
«Come un diario di viaggio, la loro pittura
sa stupirci e diventa una magnifica avventura
nell’emozione intensa e vitale del reale».
La pittura di Vilma Maiocco tra visioni simultanee e sentimento del divenire.
Nell’arte che individuiamo come “figurativa”, sappiamo bene che esiste un legame indissolubile
tra l’immagine e la rappresentazione, una relazione che coincide con ciò che si riconosce come
la sua intrinseca verità estetica, ciò che il filosofo tedesco Heidegger chiamava la “sostanza”
dell’opera.
Se nulla nasce dal nulla, alla sensibilità artistica di Vilma Maiocco appartiene una genesi di
riferimenti culturali, certamente utili alla comprensione dell’autentica qualità del suo lavoro. In tal
senso, appare molto interessante il nesso che i suoi racconti visivi stabiliscono con quello
straordinario processo di scardinamento formale e cromatico operato, all’interno dell’avanguardia
cubista, da Robert Delaunay che, intorno al 1912, introduce nell’arte un nuovo concetto di
movimento inteso come forza dinamica rotatoria, chiamato “orfismo”, dal mito del poeta-musico
Orfeo. Assecondando questo richiamo, allusivo a dinamiche cosmiche, arriviamo alla morfologia
circolare delle allegoriche visioni offerte dalla pittrice, che ci trasporta in spazi di fluida ed
instabile prospettiva, tanto affine alla disinvoltura morbida del ritmo musicale quanto ai principi rutilanti di un’ armonia universale che tutto avvolge e trasforma. Ed ecco il vibrare delle sue
visioni simultanee, vortice di una danza antica quanto il mondo, dove le prospettive rotatorie ed
aeree sembrano abbracciare ogni cosa: antichi borghi con i dedali di viuzze che si snodano tra
le case di pietra, liquidi paesaggi pronti a farsi e disfarsi, oggetti affastellati e instabili nelle
stanze, figure femminili perse nell’intimità dei propri sogni che si intrecciano fra i lunghi capelli e
si rincorrono nel gioco infinito delle pieghe delle vesti. Un mondo dove tutto e fluido e reattivo, i
cui piani ribadiscono la loro relazione onirica e dove nulla è fermo o isolato. Uno spazio illusorio
senza vuoti e senza intercapedini, come in un pavimento cosmatesco di tarsie di marmi e pietre
dure, affinché ogni cosa possa collimare e ricomporsi nel valore dell’insieme, nella forza di quella
totalità che conta più di ogni singolo gesto: un grande sentimento di “universalità” che lo sguardo
dell’artista ci restituisce come architettura di un abbraccio altrettanto grande, gesto che ha in sé
qualcosa di sacro, inviolabile appagamento della mente e del corpo. E da qui si passa ad un
secondo nesso, non meno significativo, individuabile nel ribaltamento della prospettiva
nietzschiana del tempo inteso come “eterno ritorno”: se il senso del divenire, e dunque del
tempo, non è “linearistico”, se è vero che esso non ha un fine né un punto d’arrivo perché
sostanziato dall’inarrestabile divenire della circolarità della vita, non sarà la disuguaglianza del
superuomo a dare un senso alla vita ma la sostanza della relazione, la coscienza
dell’appartenenza e della condivisione. Da queste considerazioni scaturisce il sentimento di
profonda intimità di cui si fa interprete la pittura della Maiocco, che sottende ad un sentimento di
raccoglimento, di tenerezza, ma anche di sincera partecipazione ad un destino comune, laddove
si è vulnerabili nella paura di perdere la propria individualità, e si è forti nell’abbraccio,
nell’incontro con l’altro. Riflettere su questo significa ragionare sul pensiero che da sostanza e
voce ai suoi dipinti, connotati dal tratto morbido della pennellata, dall’esperienza di contrasti
cromatici offerti da toni caldi e solari, bilanciati da poetici azzurri, dove l’eleganza linearistica
incontra la visionarietà di metamorfiche prospettive: appunti di viaggio, verso sponde di altre
terre, che si affastellano e fuoriescono dalla memoria di pagine non scritte.
Gianfranco Zazzeroni: quando l’arte incontra l’energia del reale.
La nozione di arte come strumento di comunicazione visiva, vive nella pittura di Gianfranco
Zazzeroni attraverso la poetica del segno, protagonista di un codice espressivo che, erede di
una cultura internazionale affermata nell’immediato dopoguerra dall’ Informale, svincola il
postulato artistico da ogni obbligo rappresentativo.
“ La realtà ci circonda, siamo anche noi realtà” amava affermare, alla metà degli anni Cinquanta,
Giuseppe Santomaso, uno dei grandi protagonisti dell’Informale italiano. E la realtà per Zazzeroni
non è certo il campo visivo del dato retinico, ma quello della sua elaborazione mentale che si
manifesta principalmente attraverso segni e colori, significativi testimoni di una consapevolezza artistica solo apparentemente casuale e veloce, in realtà piena di grande equilibrio compositivo,
pur sempre votata ad una libertaria esigenza esplorativa.
Quanto alle radici di questa spinta che interagisce con pulsioni emotive ricche di slanci, esse
andrebbero rintracciate, oltre che nel lessico informale, tanto incentrato sulle valenze della triade
segno-gestualità-materia, anche nell’importante e complessa esperienza dell’artista nel campo
della calcografia e mi riferisco soprattutto a quell’ arte paziente, sapiente e complessa
dell’incisione in cavo, dove il segno è un atto costitutivo di precisione e di possibilità espressiva.
Ogni dipinto di Zazzeroni vale dunque come affermazione di un personale bilanciamento tra l’
organicità grafica e compositiva, espressa dall’atto del dipingere, e la sua natura di intensa
partecipazione alla vita, identificazione panica di una totalità fisica e psichica. Così la sua arte,
affrancata dall’impegno figurale, lascia esplodere tutta l’incidenza del dato personale colto nel
suo compiersi, del suo strutturarsi di pensiero, fermato all’estremo della sua immedesimazione
con il presente. Ed ecco, dunque, il senso di un organismo pittorico, in cui sicuramente divorante
risulta la forza esplosiva del colore, che si connota, in un unico tempo, sia come pasta cromatica
sia come accensione incandescente. La sua pittura è un trionfo di materia e luce, che conduce a
continue metamorfosi, tra epifanie di bagliori cosmici e paesaggi mentali di magmi incandescenti:
traiettorie vitali e dinamiche di infinite particelle in movimento, che si concretizzano nella sua arte
in ciò che per Zazzeroni costituisce il punto cardine del proprio impegno: trasferire sulla tela tutta
l’energia dello spazio reale, codificandola in energia pittorica e cioè in una pittura che sia
soprattutto “fatto concreto”, condizione autentica e palpitante, polpa viva.
Noi siamo dunque quella realtà che non è fuori dai nostri occhi ma dentro di noi, ci insegna
l’artista. In tal senso la sua esperienza è anche indagine sulle possibilità esplorative offerte dal
fare pittorico, un viaggio umano che nelle trame grafiche e nelle pulsazioni cromatiche, nelle zone
di ombra e di luce, lascia libera la sua impronta di esistenza in atto, intima e vibrante, pronta ad
immergersi nella profondità del proprio essere, per poi riemergere e appuntarsi in un bagliore o
scomparire di nuovo.
E questo è un gioco che non è gioco, perché non è artificio, ma orientamento pittorico volto alla
continua sperimentazione, poesia visiva, di vitalistica e febbrile inventiva, in cui il rapporto con la
realtà torna a farsi espressione autentica di una situazione umana colta nel suo concreto
manifestarsi.
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