di Renato Barilli
Sulla storiografia del nostro secondo Novecento pesa un criterio alquanto nocivo, ispirato a una sorta di pretesa di “andare in bianco”, di impostare una corsa verso soluzioni vicine allo zero, quasi che il famigerato detto del Movimento moderno in architettura, nato quasi un secolo fa, less is more, fosse tuttora vigente, mentre si sa bene che gli architetti dei nostri tempi, con Bob Venturi in testa, l’hanno addirittura capovolto proclamando che less is boring, il tendere a zero, l’ispirarsi a un tetro rigorismo è una noia, non per niente viviamo nella stagione detta del postmoderno che ha allargato i cordoni della sensibilità rinunciando all’uso di un bilancino troppo cauto.
Questa “coiné” critica imperante riguarda anche taluni autori su cui io stesso ho giurato, ma senza privilegiarne in eccesso proprio gli aspetti troppo riduttivi, penso a Lucio Fontana, generoso, irrinunciabile per il suo gesto di fendere la superfiche invitandoci ad andare oltre. Ma quando i suoi fendenti si allineano in troppi esemplari, devotamente raggruppati su vaste pareti, prendono l’aria di un compitino rattristante, e oltretutto suscettibile di cadere nel logoro fenomeno dei falsi.
Opera di Moreni
E perché poi, al confronto, vergognarsi del Fontana esuberante affidato alle ceramiche policrome, gioiosamente barocche? Piero Manzoni, senza dubbio un iniziatore assoluto dell’arte concettuale, grazie a certe sue eccellenti “pensate” da cui hanno preso lo slancio Gino De Dominicis e Maurizio Cattelan, non merita invece l’untuoso culto che si riserva davanti alle sue tele imbiancate, nei cui confronti aveva ragione Yves Klein di cogliervi delle imitazioni passive rispetto alle soluzioni monocrome da lui stesso inventate. Alberto Burri è senz’altro eccellente quando esibisce le tele da sacco sdrucite, o le lamiere contorte, o le plastiche combuste, ma poi lui stesso, coerente con le sue radici, decide di ricompattare quelle superfici, fino a negare tutte le ragioni di partenza della stagione Informale. Col che, siamo al punto, è sull’Informale storico che questi critici schizzinosi e amanti del bianco strizzano il naso con un gesto di fastidio, e dunque il nostro Mattia Moreni ne è colpito, al pari di Ennio Morlotti, e la stessa perplessità dovrebbe colpire anche Emilio Vedova, ma no, il Veneziano si salva per un ricorso prevalente al bianco e nero, e dunque sa castigare l’esuberanza istintiva, e poi a riscattarlo, a riportarlo nell’Olimpo dei valori accettabili, c’è la vicinanza che gli si può riconoscere con uno dei termini di paragone d’oltre Oceano, Franz Kline. Infatti lo stesso criterio delle emunctae nares colpisce anche gli Espressionisti astratti statunitensi, tra cui i preferiti sono Mark Rothko e Robert Motherwell, perfetti impaginatori di rarefatte stesure, e appunto, subito accanto a loro, Franz Kline che va austeramente in nero. Non so se un Pollock redivivo, e soprattutto un De Kooning, otterrebbero consensi o sarebbero messi anche loro in quarantena.
Certo è che, ritornando ai nomi già fatti di Morlotti e di Moreni, oggi viene applicata ad essi una sorta di quarantena, o almeno di sospensione del giudizio, sostituita da perplessità e titubanze. Basta andare a vedere l’appena inaugurato Museo del Novecento a Milano, dove appunto ci si vergogna di una gloria locale quale Morlotti, mentre lunghe sfilate vengono concesse ai tagli di Fontana (altra cosa, sia ben chiaro, sono i suoi neon intrepidamente lanciati ad afferrare lo spazio), e alle opere di Burri, considerato come un vincitore, un primo della classe in assoluto. Davvero la Lega non penetra, nella tavola dei giudizi di cui si sono valsi i timorati ordinatori milanesi, Roma nel loro caso l’ha fatta da padrona, ha dettato i suoi codici, il che peraltro, a un convinto assertore dell’unità del nostro Paese, non dispiace tendenzialmente, purché ciò non porti a un annullamento di certi fattori storici e geografici.
Insomma, ammettiamolo pure, le azioni di Moreni, in questo momento, non sono particolarmente alte, almeno in certe stime ufficiali, e dunque è tanto più meritevole la presente rassegna a tutto campo alla quale ha appassionatamente collaborato la figlia Francesca, accompagnandola con un tenero documento d’amore, nel tentativo di stabilire una ennesima battuta di un dialogo ormai impossibile col genitore, mentre sente il dovere pressante di rendergli tutto il dovuto omaggio.
Eppure, fino a un certo punto, Moreni aveva marciato alla grande, balzando subito ai primissimi posti in un’Italia che intendeva sollevarsi dall’autarchia del periodo fascista e dalle rovine del conflitto mondiale. Possiamo iniziare questa breve cronaca del suo lavoro dall’anno 1947, quando varca le Alpi il linguaggio postcubista, chiamato a por fine ai naturalismi ancora vivacchianti negli anni precedenti. Il giovane Mattia magari persiste ad affrontare temi che possono rimanere di modesto sapore domestico, riguardanti figure femminili sorprese nel chiuso delle loro stanze, però immesse in gabbie robuste, giustamente falcidiate di inutili dettagli, aggredite a fendenti rapidi e perfino rabbiosi. Ma soprattutto, fin da questi inizi la gabbia di contenzione non è statica, sembra già sfaldarsi, come se le sbarre o i giunti non si saldassero tra loro rimanendo aperti a forare lo spazio. Sulla allora fin troppo diffusa e accettata grammatica postcubista il giovane Moreni inserisce le stoccate rapide e guizzanti di un suo maestro, Luigi Spazzapan, ovvero le figure non giacciono inerti ma aspirano ad afferrare l’ambiente. E’ un tratto stilistico che il nostro giovane artista ha in comune con i passi di Morlotti, tanto per insistere sui loro destini fin lì paralleli. E sempre per quei momenti si può aggiungere un terzo protagonista, Emilio Vedova, oltretutto vicinissimo al Nostro negli anni, i due infatti erano i cuccioli della generazione incentrata attorno al 1910, venuti dopo un intero decennio. E senza dubbio per lunghi anni godono di un medesimo grado di successo, anzi, se si va a vedere da vicino, quello del nostro artista supera l’altro, in una classifica del genere, ma poi l’ascesa di Moreni si arresta, cercheremo di vederne le ragioni, mentre il suo coetaneo prosegue in una crescita continua, fino agli unanimi riconoscimenti attuali conseguiti anche grazie alla Fondazione nata in suo nome e perfettamente gestita sulla Laguna.
Essendo i più giovani, Moreni e Vedova sono anche i più intraprendenti e sperimentali entro la compagine che poi si afferma e domina il campo attraverso il sodalizio detto del Gruppo degli Otto. Confermando un destino condiviso essi scavalcano il postcubismo, ancora troppo ligio all’aneddoto, e si danno a una geometria affidata a vasti piani, come di qualche meccanismo stravagante e irregolare i cui pezzi oscillanti nel vuoto sembrano chiedere di essere incastrati, imbullonati gli uni sugli altri. E’ una fase esaltante, in cui proprio il nostro artista mette a punto alcuni requisiti che poi non lo abbandoneranno più, come per esempio un fare largo, per stesure compatte, che però conoscono un limite di rottura, corrono verso un abisso, assillate da una qualche minaccia incombente che non gli consentirà mai di scivolare in un fiacco monocromo, e dunque la tentazione azzerante e uniforme è scongiurata per sempre, ci sarà sempre un guizzo, un palpito a rianimare quelle stratificazioni, sottraendole in definitiva a un troppo inerte codice inorganico per iscriverle piuttosto nell’ambito dell’organico, come ritrovare scheletri e ossa di qualche animale paleozoico, che forse si potrebbe riportare in vita mediante un opportuno elettroshock. O si può anche parlare di pale che potrebbero mettersi a vorticare nello spazio, come ventilatori a grande potenza e velocità.
Infine, su quegli strati geologici, su quelle stecche di balena, che presto diventano anche altrettanti moduli per costruire delle staccionate a fisarmonica, compare una lanugine, una popolazione di muschi e di licheni, come dire, tracce di vita, e questo è il punto esatto in cui sulla pavimentazione propria della fase astratto-geometrica si inserisce il tumulto dell’Informale. Un organicismo sempre più scoperto e vistoso attecchisce su quelle palizzate, su quelle spianate e lastre estese che sembrano costituite proprio in attesa del miracolo. In fondo, fin qui continua il parallelismo con Vedova, dato che anche lui porta su di giri le sue piastre, le sue laboriose infrastrutture spingendole verso moti sfrenati che le scompaginano. Ma resta una frontiera, Vedova insiste nello sfruttare l’universo dell’inorganico, di materiali inanimati e inerti, mentre il Nostro passa a un organicismo sempre più manifesto e dichiarato, perfino accettando che queste pelurie e tralci e fronde assumano il colore tipico della vita vegetale, il verde proprio della funzione clorofilliana. E’ il famigerato Ultimo naturalismo patrocinato da Francesco Arcangeli. Orrore, come si permette, il verde di natura, di fare la sua ricomparsa in un universo che dovrebbe essere dedito esclusivamente alle manifestazioni dell’ artificiale? Questa è la frontiera che andrà allargandosi, tra l’uno e l’altro, e che premierà il Veneziano, dato che la “coiné” della critica ufficiale ha paura dei soffi che vengono dal basso, preferisce quanto si muove al livello di un austero mondo di servo-meccanismi, meglio se agitati in un irreprensibile bianco e nero.
Ma nei primi anni Cinquanta il trend è favorevole a Moreni, in tutto l’Occidente si sente il bisogno di fare un bagno salutare nel primordio, di ristabilire un contatto immediato con la Terra Madre, con tutti valori del basso, del germinale. L’Informale domina, trascinato, negli USA, dai casi più violenti e frementi di Pollock e De Kooning, piuttosto che di Rothko e di Kline, e in Europa dalla predicazione impetuosa di Michel Tapié, con il suo Art Autre, entro le cui sponde Arcangeli è pronto a far confluire il suo Ultimo naturalismo. Parigi, e in essa la Galleria Rive Droite, sotto il controllo di Tapié, diviene il tempio di tutte le prove ad alta temperatura, sorte di qua e di là dell’Atlantico. E Moreni vi si asside impetuosamente, trionfalmente, accanto ai suoi degni comprimari europei che sono i Cobra, il danese Asger Yorn, l’olandese Karel Appel, e beninteso i due massimi maestri dell’Informale francese Fautrier e Dubuffet, nonché la pattuglia degli statunitensi più bellicosi ed esplosivi. C’è pure Burri, ma nelle vesti più urticanti e brucianti, che nella loro scoperta deflagrazione mettono in ombra i trascorsi dell’artista umbro quando componeva griglie di rigorosa astrazione, come tornerà a fare, con indubbia sua personale coerenza. Sono gli anni di gloria del Nostro, che prende dimora nella Ville Lumière, addirittura in una vecchia sede del Moulin Rouge, con relativi pezzi di un mobilio ormai degno di entrare nel museo del folclore. Chi va a Parigi in quegli anni fine Cinquanta sa di dover compiere un rispettoso pellegrinaggio per inchinarsi davanti a un personaggio tellurico e incantatorio. Ma troppo confidente nelle sue risorse, fino a sfidare tutte le regole del bon ton, ovvero i codici comportamentali cui pretende di attenersi e di far rispettare la critica che conta. Mai abbandonare le piazze del potere, e Parigi, benché incalzata ormai da New York, lo era ancora; o volendo ripassare di qua delle Alpi, ci si poteva accasare a Milano, o meglio ancora a Roma, o magari eleggere come terzo incomodo Venezia, cui infatti Vedova è restato sempre fedele, ma perché sulla Laguna giunge annualmente la carovana influente della Biennale. E’ pure lecito che un artista di carriera prenda dimora in una villa di campagna, ma pur di mantenere accuratamente i contatti con i centri di potere, esempio tipico quello di Burri, che gioca la sua dimensione terragna e addirittura di origine contadina soggiornando a Città di Castello, ma non mancando di condurre anche oculati stages in California. Moreni invece rompe per ragioni personali con Larcade, l’influente gallerista della Rive Droite, decidendo di rientrare nel nostro Paese, ma scartando i capoluoghi autorevoli, andando ad abitare in una Romagna fuori mano, in luoghi favolosi ma estranei alle rotte del consenso. Dapprima è un palazzo gentilizio in semi-rovina nei pressi di Russi, poi una fattoria da contadini in una località detta delle Calbane Vecchie, un nome che è già un programma di per se stesso. Tutto questo per auscultare da vicino e in profondità la Ghe Meter, scavando in essa per farne sgorgare impetuosi zampilli di energia verde pronti a contorcersi nelle tele dei secondi anni Cinquanta.
Ma l’Informale si esaurisce da sé per le troppe cariche che fa esplodere, in una fiammata esaustiva e logorante. Le nuove generazioni capiscono che bisogna saltarne fuori, anche perché la comunità occidentale ha posto fine alle catastrofi proprie del clima postbellico e sta costruendo una società opulenta, affidata al trionfo delle merci. L’oggetto, soprattutto se uscito dalla produzione industriale, è chiamato a trionfare sulla scena. Da qui il dramma di molti Informali allo stato puro, come per esempio lo stesso Morlotti. Quanto a Fontana e a Vedova, si mettono, si direbbe con formula tecnologica, in stand by, fermati, chiusi in una utile immagine canonica, riconoscibile, ripetibile, che non turbi i giudizi preconfezionati della critica che conta. Del resto, siamo giusti, Fontana scompare poco dopo, quasi a sancire la morte naturale del clima informale. Burri vi può rinunciare rilanciando le soluzioni asettiche dei suoi inizi, con sospiro di sollievo dei benpensanti, che in fondo si erano sentiti imbarazzati dalla provocazione di sacchi e lamiere, mentre si trovano più a loro agio di fronte agli esiti sterilizzati ottenuti col cellotex, in un trionfo del bianco su bianco, che cosa si può chiedere di più innocuo e privo di rischi? Vedova, dal canto suo, persiste nel far mulinare come in una centrifuga, nell’oblò di una lavatrice, i frammenti di una generosa catastrofe di materiali edilizi, sperimentando pure, bisogna ammetterlo, interessanti estroflessioni e invasioni dello spazio aperto.
Al nostro Moreni la vicinanza con la fertile terra di Romagna riesce assai utile, perché vi può seguire dal vivo un processo di gestazione, di maturazione. La scomposta, vischiosa vegetazione di tralci e di fronde è fatta per sfociare nei frutti, questa una spontanea via diacronica che consente di lasciarsi alle spalle una informalità eccessiva e ingolfata, quasi soffocata per troppo rigoglio, mettendo invece a fuoco la presenza di oggetti, sotto la specie del tutto logica dei frutti, i giusti terminali della catena biologica. E’ un processo spontaneamente genetico che in quei medesimi anni consente anche a due grandi Informali francesi della prima ora, già compagni di stanza col Nostro alla Rive Droite, Dubuffet e Fautrier, di lasciarsi alle spalle le soluzioni troppo informi e materiche dei loro inizi per giungere a delineare la presenza delle “cose”, pur con modalità diverse e nel rispetto dei loro rispettivi percorsi. Va ricordato che questo è anche l’asse storico lungo il quale il grande esponente della Pop Art statunitense, Claes Oldenburg, giunge a modellare i suoi maxi-oggetti, le macchine da scrivere, i lavabo, non privandoli del tutto di imperfezioni e irregolarità, a ricordo di una pur remota cellula iniziale.
Detto in altre parole, lungo gli anni Sessanta il nostro Moreni non vuole più che la fiammata informale arda fine a se stessa, e inizialmente le getta in pasto proprio quelle staccionate, quelle travi, che nel periodo geometrico si estendevano vaste e incontaminate, ma che poi erano state corrose dalla peluria di prime formazioni vegetali. Meglio ancora, l’invenzione più caratteristica di questo momento particolare è data dalla serie dei cartelli, che sono appunto minuscole tavolette di legno opposte dall’artista alla furia degli elementi, come gettare qualche oggetto entro il flusso della lava, con la speranza ingenua di riuscire ad ostruirla, di spegnerne l’incendio. Ma le “cose” cui ben presto va per intero l’attenzione del Nostro sono di specie del tutto naturale, egli insomma “lascia fare”, che sia la natura stessa a condensarsi in nuclei oggettuali, e spuntano così dal suolo le angurie. A ben pensarci, è un processo inverso rispetto al periodo geometrico, là erano vasti elementi pietrificati a dominare, facendosi contenitori per ospitare palpiti naturali. Qui il tumulto scomposto della terra e della vegetazione riesce a formare dei gusci perfetti, ceramicati, che quasi aspirano a sollevarsi a uno stato di prodotti artificiali, rispondenti a qualche grado di tecnologia. Sono anche come delle biglie, delle sferule gettate in un mare in tempesta, infatti l’artista apre su di loro un’inchiesta che conosce tante varianti, talvolta le angurie veleggiano lontane, emergendo da un muro di erbe come scialuppe dalle onde, talaltra invece ci fronteggiano da un primo piano incombente. Ma soprattutto il processo ricomincia subito, ovvero quei gusci, nonostante la loro perfezione, si scindono, mostrando attraverso gli squarci un interno a sua volta informe e vischioso, inghiottente, risucchiante. Forma e informe risultano sempre pronti a contendersi, a rimbalzare l’una nell’altro.
A quel punto c’è una similitudine che si impone per forza logica, inevitabile: la fenditura che si apre nelle angurie è del tutto della specie del solco che nella donna introduce verso l’interno, verso l’utero, là dove si crea la nuova vita. Ovviamente Moreni intende ripetere l’opera straordinaria di Gustave Courbet, portarci insomma in presenza del luogo in cui si compie il mistero del Commencement du monde. E’ noto e gustoso l’aneddoto del grande artista che sconvolge le signore-bene, magari recatesi in devoto pellegrinaggio nel suo antro, alle Calbane Vecchie, quando si sentono rivolgere un solenne invito a posare per un ritratto, cui accedono ben volentieri, scoprendo poi con turbamento che lui mira a raffigurarne quel particolare dato fisiologico. Non è un gesto sacrilego o impertinente, ma al contrario un atto di omaggio al luogo da cui zampilla la vita allo stato puro.
Ma, accanto a questa serie dedicata all’organo femminile, merita ritornare un momento all’altra delle angurie, veramente centrale, punto di incrocio di varie piste poi chiamate a divergere. Infatti l’anguria si caratterizza per il fatto di ostentare una realtà double face, un esterno, di cui abbiamo detto il carattere lucido, ceramicato, levigato, e invece un interno, poroso, polposo. Se si vuole, è il bisticcio che Moreni si porta dietro da sempre, tra un aspetto geometrico-razionale e uno invece irrazionale. Insomma, il guscio dell’anguria sa anche rendersi trasparente, mostrare i segreti movimenti della materia che si compiono all’interno, quasi che fossimo invitati ad ammirare degli alambicchi trasparenti entro cui un laboratorio di biotecnologie sta svolgendo esperimenti avanzati. Dentro, ci sono i semi, che sono a loro volta degli involucri tali da consentire il ripetersi del dramma bipartito, fatti cioè di contenitori lucidi e netti che però si potrebbero dischiudere permettendo la fuoriuscita di un materiale fuso e informe. E’ tanta la centralità di questo motivo, che l’artista non esita a trattarlo sia attraverso opere tridimensionali, sia anche attraverso una serie di magnifici disegni pronti a tradursi in litografie, dove in un interno reso traslucido si manifestano appunto i semi, come micro-organismi immersi in un bagno amniotico.
A partire da queste predisposizioni già raggiunte e consolidate, l’artista medita, per i suoi ultimi anni di vita, un enorme e incredibile mutamento. Il che, sia detto per inciso, contribuisce a destabilizzare la sua immagine pubblica, a contravvenire alle leggi non scritte del perbenismo nel mondo dell’arte. Così non si fa, i critici ufficiali, per non parlare dei galleristi e del mercato, preferiscono che un autore se ne stia ben fermo sulle posizioni raggiunte, facendo del proprio stile uno stereotipo riconoscibile a prima vista, senza bisogno di rifare i conti per inquadrarlo. Questo spiega il successo dei tagli di Fontana, anche se noiosamente ripetuti, e anche dei pur generosi frantumi di carpenteria agitati senza sosta da Vedova in un frullatore. Non si sono ancora esauriti, i validi suggerimenti che all’artista possono venire dall’universo delle angurie, o se si vuole, più in genere, dal fertile suolo della Romagna. Qui infatti egli scopre che la natura non agisce da sola, che i frutti della terra non nascono e si sviluppano spontaneamente ma sono sollecitati da tanti accorgimenti tecnologici, per esempio dalla pesante cappa protettiva di fogli di plastica posti a fasciare proprio le angurie per farle maturare più in fretta e con maggior volume. In formula, si potrebbe dire che a quel punto Moreni scopre l’intervento dell’artificiale, della tecnologia, che viene a inserirsi direttamente sul prodotto naturale creando un ibrido. Il che non vale solo per degli organismi inferiori quali gli ortaggi e le cucurbitacee, ma può riguardare anche l’uomo. Infatti per qualche tempo Moreni è affascinato dal suo stesso volto e decide di dedicarsi una serie di autoritratti, ma già su di loro egli pratica l’ormai inevitabile inserimento di protesi artificiali, di tubicini, sensori, strumenti di prelievo dei dati o di stimolazione delle reazioni nervose. Il che implica anche che la pelle, la scorza esteriore si rendano traslucide. E siamo così alle soglie della grande mutazione stilistica che il Nostro persegue instancabilmente nell’ultimo decennio di attività, moltiplicandone a decine gli esiti. Quale sconvolgimento per le abitudini acquisite dalla critica, quale sconforto, e obbligo di riaprire i conti, di reimpostare equazioni, formule identitarie, di fronte a un artista che non ferma il corso della sua creatività, e neppure rinuncia a sbirciare quanto attorno a lui vanno facendo artisti più giovani, non di una ma di due o tre generazioni. Si dovrebbe fare un attento computo di anni, ma non è un crimine ritenere che il Nostro abbia tratto qualche spunto dalla comparsa, negli USA, dei cosiddetti Writers, o Graffitisti, con Jean-Michel Basquiat in primo luogo, cioè di una squadra di giovani che puntano sui contorni stilizzati di icone altamente espressive, ponendoli a contrasto con sfondi stesi con massima sicurezza e assoluta maestria cromatica. Fantocci, stregoni, idoli profani che a loro volta devono essere accompagnati dai tratti di una scrittura vergata con lo stesso impeto, in modi precari, di una stenografia del tutto personalizzata, ma che valgono a dichiarare l’uso, propiziatorio, apotropaico, di scongiuro, che il pubblico deve fare di quegli amuleti. In un’operazione del genere Moreni ci mette tutta la sua perfetta maestria nello stendere degli sfondi tesi, omogenei, ma nello stesso tempo affidati a una cromia intensa, luminosa, ben lontana dalla noia senza fine delle varie soluzioni monocrome, che invece prediligono colori poveri, primari, mentre qui siamo di fronte a verdini primaverili, a rosa shocking, come si dice, a bruni che non ottundono, ma fanno brillare la superficie. Si riaffaccia insomma l’abilità con cui, da giovane e nella fase astratto-geometrica, il Nostro stendeva quelle sue falde sventagliate nello spazio. Ma ora esse hanno il compito di cingere come in una morsa dei profili molto simili agli autoritratti di partenza, però svuotati di ogni materia. L’artista si offre a una sorta di sperimentazione in vitro, lascia che il suo interno si scorga, tanto, quello che conta non è la dotazione naturale di carni, ossa, pelle, bensì gli innesti che le biotecnologie di oggi intendono praticare. Non si sa se questa è una minaccia o al contrario l’indicazione di una possibilità di andare oltre quanto madre natura riesce a darci spontaneamente. Certo è che il vecchio naturalismo risulta sconfitto o almeno superato definitivamente, ora entriamo in una zona entre les deux, di continua ibridazione tra ciò che siamo, uscendo dall’utero materno, e ciò in cui ci trasforma un trattamento affidato alle tecnologie di specie più avanzata. Forse i prossimi neonati verranno fuori dal ventre materno già dotati di tutto un apparato di sensori e apparecchi di rilevamento o di intensificazione del ritmo vitale. L’artista diviene il profeta, il denunciatore, ma anche l’affascinato presentatore di questo nuovo e diverso avvenire, quasi che gli fosse conferito il compito di farsene il grafico pubblicitario, col diritto, anche, di superare la famigerata scissione propria della nostra cultura occidentale tra il tracciare immagini e il fare esercizio di scrittura. In fondo quanto Moreni ci ha offerto nel prodigioso attivismo dei suoi ultimi anni è un sistema di ideogrammi, dove il motivo figurativo si integra perfettamente con quello della scrittura. Certo è che la critica italiana, invece di sostare perplessa e titubante di fronte a una produzione del genere, tanto essa esce fuori dai sentieri tradizionali, dovrebbe proporla con un massimo di forza all’intera audience planetaria, come un frutto che tocca le ragioni di tutti. La Biennale di Venezia, che proprio nell’attuale edizione ha raggiunto il punto più basso nell’abborracciare un padiglione caotico e confuso di presenze nostrane, dovrebbe fare come gli altri paesi stranieri, organizzare un padiglione-vetrina in cui offrire al consesso mondiale un artista per volta, che risulti carico di un retaggio storico e nello stesso tempo capace di avventurarsi sulle vie del futuro. Un omaggio del genere dovrebbe toccare in primis a Mattia Moreni.
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