di Fulvio Giustizia
AQUILA - La s’intravede da lontano, sulla cresta del Monte La Serra di Ofena (L’Aquila), in località Capranica, nella caratteristica sagoma di un gigantesco teschio (Fig.1). Avvicinandoci, la visione diventa sempre più nitida, fino a trovarci, varcando l’ingresso dello speco, di fronte non ad una ma ad una serie spettrale di grandi crani che ci fissano dalle loro profonde orbite cave (Fig.2). Sono le “marmitte”, in parte ribaltate in verticale, scavate dai mulinelli di acque torrenziali alcuni milioni di anni fa, quando la montagna non si era ancora sollevata fino agli attuali 750 metri. A questo fenomeno naturale si deve il nome del sito, agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, grazie al Gruppo Speleologico URRI di Popoli. In precedenza, come ancora oggi per la gente del luogo, il nome tradizionale è Grotta del Romito. In tempi non troppo lontani, dunque, il riparo è stato dimora di un eremita, forse in epoca rinascimentale, a giudicare da qualche frammento di stoviglia che recentemente abbiamo rinvenuto sul posto. Ma la tradizione ascetico-cultuale della Grotta, avvalorata da scavi sistematici condotti nel 1965 dall’équipe del prof. Radmilli dell’Università di Pisa, si spinge ben oltre, per un arco ininterrotto di tempo di oltre sei millenni. Procedendo a ritroso, dai 1.700 frammenti ceramici raccolti, si evincono frequentazioni d’epoca romana, tardo italica (con presenza di una stipe votiva) e delle precedenti civiltà del Bronzo e del Rame. Infine, vi sono significative testimonianze dei primi agricoltori abruzzesi del Neolitico, che si sono arrampicati quassù a venerare la Madre Terra dal ino insediamento di Capo d’Acqua, presso il fiume Tino. I Neolitici, attratti inizialmente dalle caratteristiche naturali del sito, invece di scavare, come era loro co- stume, fosse rituali per deporvi offerte propiziatorie per la fertilità della terra, hanno avuto qui buon giuoco per la presenza delle naturali cavità cilindriche. Ventidue su quaranta di queste “marmitte” hanno restituito frammenti fittili pertinenti al cosiddetto “secondo aspetto della corrente culturale della ceramica impressa”, databile a circa 6.000-6.200 anni fa, una cultura che, secondo alcuni accreditati studiosi, sarebbe pervenuta fin qui dal versante orientale dell’Adriatico, tramite migrazioni di popola- zioni dalmate-albanesi che avrebbero attraversato il mare servendosi del ponte naturale formato dalle isole Curzola, gosta, Cazza, Pelagosa e Tremiti. Devoti quanto altrettanto operosi, gli abitanti del villaggio di Capo d’Acqua erano ben inseriti nel circuito del commercio interregionale di alcuni beni preziosi quale l’ossidiana, pervenuta fin qui dalle lontane isole di Lipari e Palmarola. Nella nostra Grotta, nel 2001, abbiamo avuto occasione di rinvenire una fin qui inedita bomba vulcanica (Fig.3), pietra ovviamente carica di sacralità, in quanto proveniente dalle viscere di fuoco della Madre Terra.
Fulvio Giustizia, archeologo paletnologo e storico di cose abruzzesi, è nato nel 1939 a Calascio (L'Aquila).Vive e lavora a L'Aquila. È Socio Ordinario dal 1982 della Deputazione di Storia Patria negli Abruzzi e Deputato dal 1995. Conseguite la Laurea in Lettere nel 1978 all'Università “La Sapienza” di Roma, e la Specializzazione in Archeologia Preistorica nel 1980 presso l'Università di Pisa, si è dedicato ad una sistematica ricerca paletnologica nell'Abruzzo interno, pervenendo alla scoperta d’inediti siti preistorici, fra i quali “I Grottoni” di Calascio (L’Aquila), con reperti dell'uomo di Neanderthal. Dal 1989 ad oggi, affiancando la ricerca storica ed archeologica alla sua ordinaria attività di docente di Storia dell'Arte nei Licei, si è interessato anche di storia medievale nel territorio aquilano. Dal 2001 collabora con il CAI dell'Aquila, organizzando percorsi culturali intitolati “Itinerari archeologici di montagna”.
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