James Ellroy, lo scrittore che abbaiava come un cane

 di Carlo Bordo

  James Ellroy è il punto di riferimento irrinunciabile del noir contemporaneo: non a caso preferisce le atmosfere in bianconero stile anni Cinquanta e Sessanta, zeppe d’azione e rapide nello svolgimento, inquietanti ma, allo stesso tempo, capaci di aprire ampi squarci sulla complessità dei rapporti economici, politici e personali della malavita, con una chiara capacità di scrittura che l’accomuna al giornalismo di classe.
  Ho incontrato Ellroy nel 1989 a Cattolica, dove presentava la Dalia nera (1987), il suo primo libro tradotto in italiano. Nei primi minuti del suo intervento non parlò: abbaiò come un cane, tra il silenzio imbarazzato dei presenti. Era il “demon dog” che arrivava dai sobborghi di Los Angeles (rappresentato nel film Demon Dog of the American Crime Fiction di Richard Jud, del 1993), ma ancora non lo sapevamo. Una creatività nata dal dolore, dalla disperazione, dalla depravazione. Con un chiodo fisso, uno shock che lo accompagna per tutta la vita e che riappare, puntualmente, in tutti i suoi romanzi: l’uccisione della madre, Geneva Hilliker, nel 1958, quando aveva appena dieci anni. 

La Dalia nera è il romanzo della sublimazione, la storia di una giovane donna uccisa in circostanze simili a quelle della madre, la chiave psicanalitica che consente a Ellroy di liberarsi dei fantasmi del passato e di condividerli con i suoi lettori.
  Più  tardi, a pranzo, si rivelò una persona per bene, persino moralista, con idee decisamente di destra, coccolato dalla prima moglie (un’esile biondina) e dallo staff editoriale mondadoriano che lo aveva promosso. Strideva decisamente con l’aureola di scrittore maledetto che si portava dietro, ma non vi ha più rinunciato. 

Marchiato da un’infanzia terribile, temprato da un’adolescenza caotica, intrisa di droga, solitudine, violenza, malattia, periodi sempre più lunghi di detenzione, c’è veramente da stupirsi di come sia potuto diventare l’acuto cantore del noir americano, l’erede indiscusso dell’hard boiled, il lirico reporter di un’America torbida e sconosciuta. 

Con un linguaggio da duro che sa di malavita, di ghetti, di slang interrazziale: difficile da rendersi. Malgrado tutto, è rimasto ancora il ragazzino dagli occhi sorpresi, un giocattolo di legno tra le mani, della foto che spunta da un quotidiano del ’58. la ricostruzione di “quel” fatto di cronaca nera, la ricerca negli archivi della polizia e della procura. Il suo primo serio tentativo di fare luce su un’ossessione che gli ha dato il dono della scrittura. Potente strumento di redenzione e di rivalsa sul male di vivere. Ora ci regala il suo ultimo sguardo sull’Amerika vista con gli occhi del’infanzia.

  Il sangue è randagio (Blood’s A Rover, 2009 ) è il terzo della trilogia “Underworld U.S.A.”, iniziata con American Tabloid (1995) e proseguita con Sei pezzi da mille (2001). Definito un “noir magnetico”, scava nel marcio di un mondo che ha perduto ogni confine tra il bene e il male, aspra critica dei coinvolgimenti tra politica, malavita e interessi. Siamo nel 1968, anno cruciale della contestazione, con gli Stati Uniti impelagati nella guerra in Vietnam, dopo gli omicidi di Martin Luther King e Robert Kennedy. 

La storia si mescola con la fantasia dello scrittore in un mixing coinvolgente Al disordine sociale cerca di porre rimedio J. Edgar Hoover, il potente capo dell’FBI, controllando tre pedine in luoghi cruciali: Dwight Holly, ossessionato dalla figura di una comunista ebrea, Joan Rosen Klein, a fomentare la ribellione fra i gruppi del potere nero. Wayne Tedrow, ex poliziotto e trafficante di droga, che lavora per il miliardario Howard Hawks alla realizzazione di case da gioco nella Repubblica Dominicana. Don Crutchfield, guardone e mediocre investigatore privato. Su tutti impera la Dea Rossa, la femme fatale del momento, Joan Rosen Klein, il cui ruolo nella storia si rivela determinante.

  Come in ogni suo romanzo, Ellroy torna inevitabilmente sui suoi “luoghi oscuri”, incentrati sull’Amerika amara tra gli anni Cinquanta e la fine del secolo XX, dove l’elemento narrativo si fonde con quello autobiografico, al punto da non esserne più distinguibile. Ellroy è il testimone consapevole di una società malata e minata moralmente, ma prima di tutto è la vittima inconsapevole di quella stessa società, in cui è cresciuto e che ha imparato a conoscere a sue spese, senza mediazioni.

  James Ellroy, Il sangue è randagio, Mondadori, 2010, pp. 859, € 20,40.

Commenti