di Luigi Casale
I prefissi e i suffissi sono elementi
strutturali che entrano nella formazione delle parole. Essi
(generalmente parole monosillabiche o bisillabiche: preposizioni,
avverbi, aggettivi, nomi, o pronomi) considerati come voci autonome,
hanno un loro significato il quale modifica e completa il significato
della parola che vanno a formare quando si aggiungono ad essa
(all’inizio, i prefissi; alla fine, i suffissi).
Immaginiamo il
modello di una parola. Essa è composta da diversi elementi ognuno
di essi con un suo significato. Di questi elementi alcuni sono delle
vere e proprie parole se considerate autonomamente, e perciò il loro
significato è evidente; altri, invece, sono particelle funzionali
(es: cas-ett-a; parla-va-mo) le quali aggiungono anch’esse una
parte di significato, ma che mai troveremo da sole, per cui non sono
parole, anche se secondo alcuni teorici della lingua, all’origine
esse sono state delle parole isolate che col tempo si sono
agglutinate (si sono saldate tra loro, come fa il glutine
nell’impasto del pane). Sono parole che aggiungono quei significati
che scaturiscono dalle categorie grammaticali, come il tempo, nel
caso del verbo, o le alterazioni nel caso del nome. Allora – credo
di averlo già ripetuto altrove, ma ripeterlo non fa male – il
modello della parola risulta così fatto: al centro una radice (che
porta il significato di base della parola composta), all’inizio e
alla fine – se ci sono – si aggiungono i prefissi (all’inizio)
e suffissi (alla fine), che modificano ognuno per la parte il
significato. Solo per essere completi – non è pedanteria la mia –
devo dirvi che esistono anche gli infissi: sillabe o semplici
consonanti che si inseriscono all’interno di una parola,
spaccandone la radice. Questi, però, li potremo vedere quando ce ne
capiterà l’occasione.
Il discorso dei prefissi e dei suffissi
invece ogni parlante lo può seguire perché il loro uso è pratica
quotidiana. E non solo. Ma anche perché i vocabolari hanno l’ottima
abitudine di presentarli, come si fa con le altre parole,
autonomamente, spiegandone il significato e il modo di usarli (cioè
come si attaccano alla radice e se la loro presenza crea
modificazioni fonetiche).
Facciamo un esempio. Auto- è un
prefisso che significa “da solo” in quanto è l’adattamento
nella lingua italiana di un pronome, o meglio avverbio, greco
(antico) che significava “da se stesso”. Auto…lesionismo.
Auto…gol. Auto…mobile
Perciò autonomo (poiché “nomos” –
un’altra parola greca – è la legge) è colui che si fa la legge
(le regole di comportamento) da solo. Oggi si dice pure
“autodeterminante”. Per cui l’autodeterminazione è il
principio di libertà.
Possiamo continuare la teoria con la
parola autodeterminazione. Essa, oltre al prefisso “auto-“
contiene anche il suffisso “-zione” (che serve a formare dei
nomi: generalmente a partire da un verbo). Perciò diremo che
“auto-de-termina-zion-e” (rileviamo, per inciso, che la parte
finale delle parole variabili si chiama desinenza, che significa
parte finale), ha due prefissi e un suffisso (variabile come i nomi
che finiscono con la “e/i”) applicati alla radice “-termina-“
del verbo terminare.
Anche i prefissi e i suffissi hanno una
loro storia semantica e una loro etimologia.
E continuiamo con un esempio.
Auto-mobile è un oggetto mobile, che si muove “da solo”. Tutti
sappiamo di che cosa stiamo parlando. Ad un certo momento della
storia delle civiltà la tecnologia, aiutata dalla scienza, ha
prodotto un veicolo che si muove da solo soppiantando così il
trasporto di persone e cose mediante la trazione “animale”
(cavallo, asino, buoi, cammello, ecc. ed anche l’uomo stesso). Così
per cento anni i trasporti e le comunicazioni sono stati
caratterizzati dalla presenza di questo mezzo “se-movente” fino
al punto di farci dimenticare l’origine del significato della
parola automobile. Un po’ come succede con ascensore, e tante altre
parole (da qui a volte la necessità di studiare l’etimologia delle
parole).
Proprio la cultura della “macchina
che trasporta” ha generato tutta una serie di servizi che l’uso
della lingua (che cerca sempre di sintetizzare per una ragione di
economia all’interno della lingua stessa) ci fa chiamare:
“autoveicolo”, “autosalone”, “autoradio”, “autonoleggio”,
“autorimessa”, “autodromo”, “autogrill”,
“autoriparazioni”, “autolavaggio”, ecc. dove “auto” non
significa più “da se stesso”, bensì “che ha a che fare con i
veicoli a motore”, cioè l’automobile.
Lo stesso processo è capitato col
prefisso “tele-“. Utilizzato nelle parole televisione, telefono,
teleferica, telepatia, ecc. esso ha il significato dell’avverbio
“telei” nel greco antico, cioè “a distanza” (come il
tedesco “fern-“). Ma diffusosi poi l’uso della televisione come
tecnologia; e createsi tante attività collegate a questo mezzo che
ci consente di vedere a distanza persone, spettacoli e avvenimenti,
oggi il prefisso
“tele-“ significa semplicemente “che riguarda la televisione”.
“tele-“ significa semplicemente “che riguarda la televisione”.
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