Noia: otium literarium, accidia, angoscia, spleen, nausea

di Angela Curatolo

“ ...immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che l'animo ed il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d'insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e nobiltà, che si veggia nella natura umana...” - Leopardi -

La noia può essere un’occasione per rilassarsi e godere delle meraviglie della psiche e del mondo, meditare, sognare, fantasticare. L'incapacità dell'uomo di viverla e capirla, può portare a degenerazioni e sofferenza interiore.

L'antica Grecia e l'antica Roma vantavano la presenza di uomini, solo raramente donne, che avevano capito il valore dei momenti che oggi chiameremmo “morti” o, per meglio intenderci, non produttivi economicamente. La vita dei pensatori dell'epoca girava attorno a questi momenti che passarono alla storia sotto il capitolo chiamato “l’otium literarium”.
La noia, intesa come otium, era il mezzo attraverso il quale si ricercava, si analizzava per evolversi. Era piacevole, era un serio impegno. L’otium letterario individuale diventava il piacere di scrivere, il vero e autentico scopo della vita, tramandare le scoperte frutto di questa ricerca.

Nel Medioevo, forse a causa di una soffocata relazione con la spiritualità, la noia comincia ad essere vista come una prigione, un angoscia che può portare, addirittura, all'accidia.
Quell'isola di serenità psichica vissuta e protetta sempre dall'uomo, comincia ad essere percepita come la causa di un tremendo sentimento.
Dante Alighieri (1265 circa e 1321) è attratto da questa possibile reazione dell'uomo: quando, cavalcando un momento di vuoto, incapaci di tenere “le redini di Pegaso” si rischia di crollare e diventare cibo per l'accidia (dal greco: a = senza+ kédion = cura sinonimo di indolenza). Questo, che non a caso Dante pone tra i sette vizi capitali, non è altro che l'avversione all'operare mista a noia e indifferenza.

Nel lessico contemporaneo il lemma accidia / accidioso è un sinonimo di noia ma anche di vita depressa.
Spesso indicata come senso di scoraggiamento, abbattimento e stanchezza da chi vive appieno l'attuale sistema frenetico occidentale. Un sistema in cui l'unica normalità prevista è quella costruita sulla capacità solo di fare, desiderare, meritare, conquistare qualcosa.
Chiaramente oggi è correntemente considerato un sintomo di depressione e non un peccato.
E fortunatamente non è più giusto chiamarla più “senza cura”.

Nei secoli la noia riveste diversi ruoli: la sua presenza non è più solo un sintomo dell'accidia ma un prodotto fallato dell'angoscia.

Chi meglio di Kierkegaard (1813- 1855) descrive l'angoscia: “quel senso di soffocamento che opprime gli uomini più dotati e più sensibili, quel senso di soffocamento che non si sa bene da che derivi, da dove nasca, ma che c'è... e che ti spinge all'evasione, alla fuga... e alla noia, e alla soppressione della noia, e al dolore.” Il vecchio Kierkegaard ponendo l'accento sulla presenza a singhiozzo di stimolo e eccitamento identificò con “excerbatio cerebri”, la tendenza a vivere una realtà goduta, desiderata, inseguita ma nello stesso tempo superata e distaccata, vissuta nel ricordo e nella immaginazione. Una sofferenza per la realtà che non contiene abbastanza eccitamenti o se li contiene solo per attimi brevi. La vita dell'esteta è questa, no? Appena la realtà non costituisce stimoli, eccitamento, l'esteta s'affloscia.

Arthur Schopenauer (1788-1860) che ha passato l'intera vita nell'otium litterarium e più che un esteta sembra un “gufo antidiluviano” attribuisce l'angoscia al proporsi del desiderio in continuazione: “Una volta, poi, che il desiderio viene appagato, si arriva alla noia e ad un nuovo desiderio, cioè ad un nuovo dolore. Col possesso, svanisce ogni attrattiva; il desiderio rinasce in forma nuova e, con esso, il bisogno; altrimenti, ecco la tristezza, il vuoto, la noia, nemici ancor più terribili del bisogno”.
Leopardi chiamò questo tipo di stato mentale “pessimismo psico sensistico”. Era sulla stessa onda del tignoso Arthur che conclude: “La felicità non esiste: è importante risolvere il dolore e la noia”.

La noia, durante il periodo di diffusione della poesia Decadentista si trasforma in paralizzante. La poesia di questi “giovani dark dell'epoca” diventa espressione di un malessere esistenziale che nasce da un'incapacità a reagire a questa noia paralizzante. "Spleen" (Fiori del male - Baudelaire) è la poesia emblema di quella generazione. E' una parola inglese che inizialmente significava "milza","bile" adottata come simbolo della poesia decadentista sulla base delle antiche teorie mediche che situavano proprio nella milza la causa della sindrome depressiva. Nell'evoluzione del suo uso il termine assunse il significato di "malinconia", "disgusto", "tedio esistenziale".

Un uomo della strada in fondo non si crea tutti questi problemi: mangia e beve vino, lavora, fa l'amore, si fa una partita a carte con gli amici e tenta di parlare di sport, politica e male dei non presenti. Ma gli intellettuali sono una razza a sé, apparentemente sembra che soffrono, in realtà sono come astronauti che iniziarono un lungo viaggio nella psiche oltre 2000 anni fa partendo sulla “Navicella del pensiero” pur sapendo che non sarebbero più tornati; le generazioni future avrebbero continuato a vivere su questa Navicella e ancora oggi il popolo degli intellettuali vive su questa specie di “Enterprise del pensiero” per scoprire i pianeti della psiche. I loro corpi sembrano nascere e vivere qui tra noi ma non è così. Il popolo degli intellettuali porta avanti la missione: esplorare le frontiere della psiche attraverso il pensiero, rischiando di scoprire che le frontiere non esistono, così le pongono loro, per vantarsi innanzi a se stessi di averle trovate.
Ma subito dopo arriva un altro che va oltre e costruisce altre frontiere, per poter dire: “io ho trovato le frontiere più lontane!”

L'esistenzialismo (inizio secolo anni 20/30) speriamo che abbia posto le ultime frontiere del pessimismo assoluto dell'interiorità del pensiero umano:“L’uomo gettato nell’esistenza è messo di fronte a continue scelte e responsabilità, questo crea inquietudine perché sente che la sua esistenza possa rivelarsi inutile.” Ma v'è di più, l'esistenzialismo è deciso a toccare il fondo dell'esistenza nera e buia. Si rivela una grande impresa, molto utile alle generazioni future che riusciranno a capire i propri stati d'animo più angoscianti: “L'individuo è solo in ogni istante, sebbene viva in società, e proprio per questo è condannato a decidere come agire; egli è quindi libero di scegliere, libero di vivere - pur essendo condizionato dagli altri - e libero persino di non essere libero, ossia libero di lasciarsi vivere, nel senso che la sua esistenza viene manipolata e decisa dagli altri (è chiaro che, in questo caso, si tratta di esistenza inautentica, non voluta e non scelta in piena autonomia).”
Gli esistenzialisti hanno avuto la grande intuizione di individuare dei grumi di pensiero negativo ma non sono stato in grado di trasformarli in qualcosa di positivo, utile.
Prendiamo ad esempio la solitudine: è un mezzo che ci permette di essere in contatto totale con noi stessi. Forse molti di loro hanno esagerato con la solitudine e non hanno potuto capire il lato benefico di questo stato che è comunque deleterio quando è puramente psichico. Inoltre, si capisce lo scenario temporale dell'approdo a questi tipi di deduzioni ma la visione della libertà come condanna a decidere in alternativa alla manipolazione altrui è un dato di fatto raccontato con mestizia.

Sartre descrive la sua nausea nelle profonde opere letterarie. Ma cosa si traduce in nausea? Le sensazioni suscitate dalle cose che sono anzitutto ribrezzo e disgusto, giustificati dal fatto che ciò che ci circonda e ci tocca, nostro malgrado, ci opprime. “Gli oggetti che quotidianamente osserviamo intorno a noi costituiscono un "troppo", posseggono una tale pienezza e "gonfiezza" da risultare soffocanti e ributtanti”

Moravia che ha dato il colpo di grazia alla percezione della noia, sostiene che essa sia dovuta ad una mancata conciliazione tra la coscienza ed il desiderio: “la noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità nei confronti della realtà "una malattia degli oggetti", "incapacità di uscire da me stesso", "malessere che mi ispirava quello che ho chiamato l'avvizzimento degli oggetti", "specie di nebbia nella quale il mio pensiero si smarrisce.”
Ma il viaggio del pensiero non si conclude qui. Sin qui ha preso conoscenza e informazione per cercare una soluzione.

Gli antichi romani erano cultori della noia e la storia dell'occidente non è stata capace di insegnare a goderne come ad esempio fanno gli animali.

Gli animali quando vivono nel loro habitat naturale seguono il naturale corso della loro essenza vivono la noia come momento fondamentale della loro giornata. Invece quando non vivono nel loro habitat naturale e sono costretti a umanizzarsi troppo vivono anche essi la noia come momento estremamente pericoloso.
La noia diventa un problema quando l’angoscia si trasforma in depressione e quindi in malattia.
Si dovrebbe insegnare dalla nascita a godere dell'apparente staticità dei momenti, viverli per comprendere che la vita è fatta di tante emozioni, negative e positive, provare le sensazioni anche le più dolorose e noiose, diventa un esperimento che deve terminare o prima poi, per accogliere altri esperimenti.
La noia permette di rilassarsi.
Ogni qual volta che non si assecondano la propria indole, la propria natura le emozioni vengono falsate immediatamente nel corso della giornata, generando confusione. E la noia si trasforma in angoscia, e a lungo andare in dolore o addirittura accidia, venendo meno la spontaneità si creano le ombre e per affrontare le ombre bisogna diventare cavalieri coraggiosi.
L’antidoto alla noia consiste nell’interessarsi attivamente a tutto quanto ci circonda, anche alla noia stessa, vivendo la vita in ogni ora del giorno.
Non dimentichiamo che la verità (Seneca diceva che la verità ci rende felici) si cela dietro ogni cosa e le circostanze stesse della vita. La vita è un viaggio e la felicità è nel viaggio stesso. Passo dopo passo, perfezionandoci nell’arte di accrescere l’esperienza, viviamo la fantastica avventura della vita possibilmente senza dimenticare di aiutare i nostri compagni di viaggio. Siamo tutti eroi finché viaggiamo.
“Trova il tempo di essere amico: è la strada della felicità”.
(Madre Teresa di Calcutta)